CORTE DI APPELLO DI ROMA 
 
    La Corte di appello di Roma sez. III penale composta da: 
        1) dott.ssa Annamaria Acerra, Presidente relatore; 
        2) dott.ssa Cecilia Demma, consigliere; 
        3) dott.ssa F. Romana Salvadori, consigliere; 
    riunita in Camera di consiglio,  sciogliendo  la riserva  assunta
all'udienza del 30 ottobre 2019,  sentite  le  parti,  ha  emesso  la
seguente ordinanza di  rimessione  alla  Corte  costituzionale  e  di
contestuale sospensione del procedimento. 
    Con richiesta, pervenuta in data 23 ottobre 2019, il difensore di
F. F. , nato a ... il  ...,  in  atto  detenuto  presso  la  casa  di
reclusione di ... in forza  di  ordine  di  esecuzione  emesso  dalla
Procura generale presso la Corte  di  appello  di  Roma  in  data  22
ottobre  2019,   chiede   dichiararsi   la   temporanea   inefficacia
dell'ordine di esecuzione della pena per la durata di  giorni  trenta
al fine di formulare richiesta di misura alternativa alla  detenzione
e,   in   subordine,   di   sollevare   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, legge n.  354/1975,  come  modificato
dall'art. 1, comma 6, legge  n.  3/2019,  entrato  in  vigore  il  31
gennaio 2019; 
    Letti gli atti; 
    Premesso che, con sentenza, resa  da  questa  Corte  territoriale
l'11 settembre 2018, in parziale riforma della sentenza del Tribunale
di Roma in data 20 luglio 2017, irrevocabile il 22 ottobre  2019,  F.
F. e' stato condannato alla pena di anni quattro di reclusione per il
reato di cui all'art. 319 del codice penale; 
    Ritenuto,   preliminarmente,   che   l'istanza   di   sospensione
dell'esecuzione cosi come proposta  risulta  ammissibile.  Invero,  a
mente dell'art. 656  del codice  procedura  penale,  come  modificato
dalla legge n. 165/98, il pubblico  ministero,  fermo  il  dovere  di
emettere l'ordine di carcerazione per le pene detentive brevi,  deve,
contestualmente, sospenderne l'esecuzione con separato provvedimento,
assegnando al condannato un termine di trenta  giorni  per  formulare
richiesta di  misure  alternative.  Ne  consegue  che,  ove  non  sia
adottato il provvedimento di sospensione,  non  essendo  prevista  la
facolta' di proporre al pubblico ministero istanza di annullamento  o
di revoca dell'ordine di  carcerazione  legittimamente  emesso,  deve
pero'  essere  consentito  al  condannato  di  rivolgere  al  giudice
dell'esecuzione un'istanza di declaratoria di inefficacia  temporanea
del provvedimento che dispone la carcerazione, e cio' in applicazione
analogica dell'art. 670 del codice procedura penale (cfr.  Cassazione
Sez. 1, sentenza n. 25538 del 10 aprile 2018 Cc. - dep. 6 giugno 2018
- Rv. 273105: «// giudice dell'esecuzione non puo' annullare l'ordine
di esecuzione emesso dal  pubblico  ministero  senza  il  contestuale
provvedimento di  sospensione  per  pene  detentive  brevi,  ma  deve
esclusivamente dichiararlo temporaneamente inefficace per  consentire
al condannato  di  presentare,  nel  termine  di  trenta  giorni,  la
richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenutone»); 
    Rilevato  che  l'ordine  di  esecuzione  di  cui  si  invoca   la
sospensione afferisce a pena detentiva infraquadriennale inflitta per
reato ostativo all'applicazione di misure alternative alla detenzione
a seguito della modifica introdotta dall'art. 1, comma  6,  legge  n.
3/2019, entrata in vigore il 31 gennaio 2019; che  il  condannato  al
momento dell'emissione dell'ordine di esecuzione della  pena  era  in
stato di liberta'; 
 
                               Osserva 
 
    La difesa, richiamando la giurisprudenza  di  legittimita'  e  di
merito, nonche' della Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, invoca l'adozione di
un provvedimento di sospensione alla stregua di  una  interpretazione
costituzionalmente orientata del precetto di cui all'art. 1, comma  6
della  legge  n.  3/2019  sotto  il  profilo  della   sua   possibile
interpretazione   quale   norma   sostanziale    piu'    sfavorevole,
inapplicabile retroattivamente a fatti - come nel caso  di  specie  -
commessi prima della sua entrata in vigore; in subordine, in  difetto
delle  condizioni  per  simile   operazione   ermeneutica,   denuncia
l'illegittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma  6,  lettera  b)
della legge 9 gennaio 2019, n. 3, la' dove ha inserito i reati contro
la pubblica amministrazione tra quelli «ostativi» ai sensi  dell'art.
4-bis, legge 26 luglio  1975,  n.  354,  senza  prevedere  un  regime
intertemporale e, in ogni caso, laddove,  ha  inserito  alcuni  reati
contro la  pubblica  amministrazione,  tra  i  quali  quello  di  cui
all'art. 319 del codice penale, tra quelli ostativi  ai  benefici  di
cui all'art. 4-bis, legge n. 354/1975 per contrasto con gli  articoli
3, 24, 25, comma secondo, 27, comma 3, 117  della  Costituzione  e  7
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali evidenziando che: 
        avendo riguardo al combinato  disposto  degli  articoli  656,
comma 9, lettera a), codice di procedura penale  e  4-bis,  legge  26
luglio 1975, n. 354, in relazione al delitto di cui all'art. 319  del
codice penale inserito nel novero dei reati di cui allo  stesso  art.
4-bis in virtu' della novella del 9 gennaio 2019, n. 3, non sia  piu'
possibile sospendere l'ordine di esecuzione ai fini  della  richiesta
di misure alternative  alla  detenzione  in  stato  di  liberta'.  In
assenza  di  una  disposizione  transitoria  regolativa  dei   limiti
temporali  di  applicazione  della  nuova   disciplina,   l'emissione
dell'ordine di carcerazione e' pertanto «obbligata», con una modifica
peggiorativa del trattamento penitenziario. Modifica peggiorativa  «a
sorpresa» atteso che, al momento in cui e' stato commesso  il  reato,
il  condannato  poteva  ragionevolmente  confidare  che  la  sanzione
sarebbe rimasta nei limiti di operativita' delle misure alternative. 
    Inoltre la  difesa  censura  la  costituzionalita'  dello  stesso
inserimento nel novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui
al citato art. 4-bis dei delitti dei  pubblici  ufficiali  contro  la
pubblica amministrazione (in particolare, di quello di  cui  all'art.
319 del codice penale che viene in rilievo nella specie),  in  quanto
in chiaro contrasto con la funzione rieducativa della pena. 
    Ritiene la Corte di non potere accedere  ad  una  interpretazione
costituzionalmente orientata  del  combinato  disposto  di  cui  agli
articoli 656, comma 9, lettera  a),  codice  di  procedura  penale  e
4-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354,  come  modificato  dall'art.  1,
comma 6, legge 9 gennaio 2019, n. 3. 
    Invero, avuto riguardo al «diritto  vivente»,  quale  si  connota
alla luce del diritto  positivo  e  della  lettura  giurisprudenziale
consolidata a seguito della decisione delle Sezioni Unite  del  2006,
le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene  detentive  e  le
misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento  del
reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita'  esecutive
della  stessa,  sono  da  considerarsi  norme   processuali   e   non
sostanziali; pertanto sono soggette, assenza della previsione di  una
disciplina transitoria al principio tempus regit  actum  e  non  alle
regole dettate in materia di successione di norme  penali  nel  tempo
dall'art. 25 della Costituzione e dall'art. 2 del codice panale. 
    Tale   principio,   a   tacere   delle   pronunce   della   Corte
costituzionale e della  Corte  di  legittimita',  e'  stata  ribadito
nell'ordinanza del 18 giugno 2019 con la quale la 1°  Sezione  Penale
della Corte di legittimita', nel sollevare questione di  legittimita'
costituzionale della norma de quo per l'irragionevole inclusione  del
reato di peculato nell'art. 4-bis, ha  pero'  testualmente  precisato
«la costante elaborazione interpretativa di questa Corte (sollecitata
nel corso dei tempo proprio dalle numerose variazioni  apportate  dal
legislatore al testo dell'art. 4-bis ord. pen.)  e'  attestato,  come
osservato dal pubblico ministero ricorrente, sulla natura processuale
di tale tipologia di disposizioni (v. Sez. Un. n. 24561 del 30 maggio
2006, nonche' nel corso del tempo, tra le molte, Sez. I n.  3789  del
22 settembre 1994, rv 199591; Sez. I n. 3834 del 23  settembre  1994,
rv 199786, Sez. I n. 46649 dell'11 novembre 2009, rv 245511;  Sez.  I
n. 11580 del 5  febbraio  2013,  rv  255310)  senza  che  cio'  abbia
determinato interrogativi  di  legittimita'  costituzionale,  e  tale
assetto -  con  le  precisazioni  che  seguono  -  e'  condiviso  dal
Collegio. D'altra parte, va anche osservato che dal 1991 a  tutt'oggi
la disposizione di cui all'art. 4-bis ord. pen. e' stata  oggetto  di
modifica legislativa in piu' di  dieci  occasioni  e  -  tra  queste,
escludendo la limitata disciplina  transitoria  iniziale  di  cui  al
decreto-legge n. 152 del 1991 - soltanto in una delle  successive  il
legislatore (art. 4, legge n. 279 del 23 dicembre 2002)  ha  ritenuto
di regolamentare in bonam partem il diritto  intertemporale  con  una
disposizione  transitoria,  tesa  a  rendere  applicabili  le   nuove
disposizioni ai soli fatti di reato posteriori alla vigenza,  ne'  la
Corte costituzionale,  pur  sollecitata  su  numerosi  profili  della
disciplina legislativa si e' mai espressa nella  direzione  sostenuta
nella decisione  impugnata,  presupponendo  in  numerosi  arresti  la
vigenza immediata delle nuove disposizioni (v. ord. n. 29 del 2013) e
limitandosi ad operare - in riferimento al  contenuto  dell'art.  27,
comma  3  della  Costituzione  -   sui   terreno   della   inibizione
all'applicazione  immediata  delle  disposizioni   peggiorative   nei
confronti di coloro  che  in  regime  di  restrizione  avessero  gia'
raggiunto - al momento della vigenza delle disposizioni  peggiorative
- uno stadio  del  percorso  rieducativo  da  ritenersi  adeguato  al
godimento del beneficio (sentenze n. 504 del 1995, n. 445  del  1997,
n. 137 del  1999,  n.  257  del  2006).  La  tutela  dell'affidamento
dell'imputato,  sottoposto  a  verifica  processuale  delle   proprie
condotte, nella accessibilita' (non condizionata da nova sfavorevoli)
a forme alternative di espiazione previste  dalla  legge  antecedente
risulta essere indubbiamente un valore  meritevole  di  attenzione  e
tutela, ma tale esigenza di garanzia non impone - in altre  parole  -
di  ritenere  sempre  inapplicabili  le   disposizioni   peggiorative
introdotte  in  un  momento  posteriore  rispetto  a   quello   della
condotta.» 
    Tanto puntualizzato, escluso che possa quindi la Corte  procedere
ad una lettura costituzionalmente orientata della norma alla luce del
granitico orientamento innanzi richiamato sulla  natura  processuale,
divenuto diritto vivente, si ritiene che il nuovo regime e introdotto
senza la previsione di una norma transitoria con  riguardo  ai  reati
commessi prima dell'entrata in  vigore  della  legge  n.  3/2019  sia
evidente contrasto con l'interpretazione consolidata presso la  Corte
europea dei diritti dell'uomo e con l'art. 25 della Costituzione. 
    La ratio degli articoli  25  della  Costituzione,  2  del  codice
penale e 7  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali  e'  quella  di  tutelare  il
cittadino da abusi del potere  legislativi  ed  evitare  che  possano
subire conseguenze penali afflittive in virtu' di  leggi  entrate  in
vigore successivamente alla commissione del fatto-reato. 
    Molto significativa pare  l'espressione  utilizzata  dalla  Corte
costituzionale nella sentenza 196/2010 laddove si sottolinea che  ...
«la garanzia di irretroattivita' sancita dal 2°  comma  dell'art.  25
della Costituzione, interpretata anche alla  luce  delle  indicazioni
derivanti  dal  diritto  internazionale  dei  diritti  umani,  e   in
particolare della giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo relativa all'art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  impone  di  non
sorprendere la persona con una sanzione non  prevedibile  al  momento
della commissione del fatto». 
    La Corte europea dei  diritti  dell'uomo  nella  sentenza  del  9
febbraio  2005,  resa  nella  causa  Welch  contro  Regno  Unito,  ha
sottolineato che e' necessario andare al di  la'  delle  apparenze  e
valutare se una particolare misura equivale in sostanza ad una pena. 
    Sempre la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  nella  sentenza
Kafkaris  ha  chiaramente  precisato  che  «il   termine   "inflitta"
utilizzato nella sua seconda frase non puo' essere  interpretato  nel
senso di escludere dal campo di applicazione dell'art. 7 § 1 tutte le
misure introdotte successivamente alla pronuncia della condanna»;  ha
ribadito a tale  riguardo  che  e'  estremamente  importante  che  la
Convenzione sia interpretata e applicata in modo da  rendere  i  suoi
diritti pratici ed effettivi, non teorici e illusori (si vedano Hirsi
Jamaa e Altri e. Italia [GC], n. 27765/  09,  §  175,  CEDO  2012,  e
Scoppola (n. 2), sopra citata, § 104) ed  ha  cosi'  statuito:  «Alla
luce di quanto sopra, la Corte non esclude  la  possibilita'  che  le
misure adottate dal legislatore, dalle autorita' amministrative o dai
tribunali successivamente all'inflizione della pena definitiva, o nel
corso dell'espiazione della pena, possano comportare la ridefinizione
o la modifica della portata della pena  inflitta  dal  tribunale  del
merito.  Quando  cio'  accade,  la  Corte  ritiene  che   le   misure
interessate  dovrebbero  rientrare   nell'ambito   dei   divieto   di
applicazione retroattiva delle pene previsto dall'art. 7 § 1 in  fine
della Convenzione. Diversamente, gli Stati  sarebbero  liberi  -  per
esempio modificando la legislazione o reinterpretando  i  regolamenti
stabiliti   -   di   adottare   delle   misure    che    ridefinivano
retroattivamente la portata della pena inflitta, a  svantaggio  della
persona condannata, quando quest'ultima non avrebbe potuto immaginare
tale sviluppo al momento in cui e' stato commesso il reato o e' stata
inflitta la pena. In tali condizioni l'art. 7 § 1  sarebbe  privo  di
qualsiasi effetto utile per le persone condannate a pene delle  quali
e' stata modificata la portata ex post facto a loro svantaggio». 
    La  Corte  ha  sottolineato  che  tali  modifiche  devono  essere
distinte dalle modifiche apportate alla modalita' di esecuzione della
pena, che non rientrano nel campo di applicazione  dell'art.  7  §  1
precisando che «per determinare se  una  misura  adottata  nel  corso
dell'esecuzione di una pena riguarda solo la modalita' di  esecuzione
della pena o, al contrario, incide sulla sua portata, la  Corte  deve
esaminare in ciascun  caso  che  cosa  comportava  effettivamente  la
"pena" inflitta in base al  diritto  interno  in  vigore  al  momento
pertinente, o in altre parole, quale era la  sua  natura  intrinseca.
Nel fare cio' essa  deve  considerare  il  diritto  interno  nel  suo
complesso e la modalita'  con  cui  esso  era  applicato  al  momento
pertinente (si veda Kafkaris, sopra citata, § 145)». 
    A supportare  il  dato  di  «non  manifesta  infondatezza»  della
questione in esame, soccorre la recente pronuncia della Suprema Corte
Sez. VI  Penale  n.  12541  del  14  marzo  2019,  nella  quale,  pur
precisandosi che la questione non era pertinente  alla  questione  da
trattare, tuttavia i giudici del Supremo Collegio  hanno  evidenziato
che: «... l'omessa previsione di  una  disciplina  transitoria  circa
l'applicabilita' della disposizione (come novellata) possa  suscitare
fondati  dubbi  di  incostituzionalita'  in  relazione  ai  riverberi
processuali  sull'ordine  di   esecuzione,   in   quanto   non   piu'
suscettibile di sospensione in forza della previsione dell'art.  656,
comma 9, cod. proc. pen.». 
    Ed  invero,  appare  fonte  di   ingiustificata   disparita'   di
trattamento ex art. 3 della Costituzione la novella del 2019 che pone
sullo stesso piano, sotto il profilo della esecuzione della pena, chi
ha commesso il reato potendo contare su un impianto normativo che gli
avrebbe consentito di non scontare in carcere una pena, eventualmente
residua, inferiore a quattro anni, e chi ha commesso  o  commette  il
reato dopo l'entrata in vigore della legge  9  gennaio  2019,  n.  3,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  del  16  gennaio  2019,  n.  13.
Ancora, la norma presenta, nella parte in cui  non  ha  previsto  una
disposizione di diritto  intertemporale,  profili  di  non  manifesta
infondatezza di illegittimita' costituzionale per  contrasto  con  il
disposto del comma 2, dell'art. 25 della  Costituzione,  per  i  suoi
indubbi riflessi sostanziali in punto di  esecuzione  della  pena  in
concreto, cosi' come intesa nella piu' recente  giurisprudenza  della
Corte europea per  i  diritti  dell'uomo,  in  quanto  frutto  di  un
cambiamento delle regole successivo alla data del commesso reato. 
    Infine, appare contrastante con l'art.  117  perche'  l'avere  il
legislatore cambiato in itinere le regole sull'esecuzione della  pena
per taluni reati senza prevedere alcuna  norma  transitoria  presenta
tratti di non conformita' con l'art. 7  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  e
quindi, con l'art. 117 della Costituzione, laddove si traduce per  il
condannato nel passaggio a sorpresa e  non  prevedibile,  al  momento
della  commissione  del   reato,   alla   sanzione   con   necessaria
incarcerazione. 
    La prospettata questione  e'  rilevante  nel  presente  giudizio,
potendo  l'istante,  in  caso  di   dichiarata   incostituzionalita',
ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi
per lui il termine  di  trenta  giorni  per  proporre  richiesta,  da
libero, di misure alternative alta detenzione per l'esecuzione  della
pena. 
    La  Corte  ritiene  fondata  anche  la  questione  della  dedotta
illegittimita' costituzionale  dell'inclusione  del  delitto  di  cui
all'art. 319 del codice penale  tra  quelli  ostativi  ai  sensi  del
combinato  disposto  degli  articoli  656,  comma  9  del  codice  di
procedura penale, 4-bis, legge n. 345/75 e art. 6, lett. b), legge n.
3/2019. 
    Va precisato che in  tale  sede  lo  scrutinio  attiene  al  solo
profilo della costituzionalita' della norma nella parte  in  cui  non
consente l'emissione dell'ordine di esecuzione  con  sospensione  per
trenta giorni onde consentire al condannato di  proporre  istanza  di
misura alternativa innanzi al Tribunale di sorveglianza. 
    La Corte ritiene sul punto condivisibile la puntuale  e  completa
motivazione dell'ordinanza resa dalla Corte di cassazione in data  18
giugno 2019  alla  quale  si  fa  espresso  rinvio  apparendo  quelle
considerazioni riferite al reato di  peculato  estensibili  anche  al
reato di cui all'art. 319 del codice penale in scrutinio. 
    «L'inserimento, per quanto qui rileva, del  delitto  di  peculato
nella  disposizione  di  cui  all'art.  4-bis,  comma  1  impone,  in
particolare, di interrogarsi sulla idoneita' di tale  fattispecie  di
reato - presa in esame in  rapporto  esclusivamente  al  titolo  -  a
sostenere la ragionevole formulazione (art. 3 della Costituzione)  di
quella sottostante presunzione  legale  di  accentuata  pericolosita'
sociale del suo autore che  legittima  l'iscrizione  nel  particolare
catalogo, con tutto cio' che ne deriva in punto di limitazione  della
discrezionalita'   del   momento   giurisdizionale   in    sede    di
individualizzazione del percorso di espiazione della  pena  (art.  27
della Costituzione). La giurisprudenza della Corte costituzionale  ha
raggiunto,  sul  tema  della   verifica   di   ragionevolezza   delle
presunzioni legali  di  pericolosita',  un  consolidato  assetto  cui
occorre - inevitabilmente - compiere riferimento. 
    La logica sottostante l'inserimento di una fattispecie  di  reato
nella previsione di legge di cui all'art. 4-bis, comma  1  ord.  pen.
risiede - in tesi - nella particolare connotazione di  disvalore  del
fatto commesso dal condannato, tale da implicare,  nella  prospettiva
seguita dal legislatore, la totale inaffidabilita' del medesimo verso
forme  alternative  di  esecuzione  della   pena   che   pongano   il
destinatario in una condizione di possibile interazione con l'esterno
- con sottrazione di tale giudizio alla discrezionalita' del  giudice
in forza della scelta  legislativa  -  salve  le  ipotesi,  anch'esse
formalizzate dalla legge, di avvenuta collaborazione con la giustizia
(ai sensi dell'art. 58-ter ord. pen.) o di collaborazione impossibile
o inesigibile (art. 4-bis, comma 1-bis) previa verifica  dell'assenza
di collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata,  terroristica  o
eversiva. Dunque, la sottrazione alla ordinaria discrezionalita'  del
giudice  in  tema  di  accesso  a  misure   alternative   tese   alla
risocializzazione  (ai  sensi  dell'art.  47  ord.  pen.,  la  misura
dell'affidamento in prova al servizio sociale  puo'  essere  disposta
solo  li'  dove  il  provvedimento   favorevole   contribuisca   alla
rieducazione del reo e assicuri la prevenzione dal pericolo che  egli
commetta  altri   reati)   si   muove   tutta   in   un   ambito   di
predeterminazione legislativa dei principali  snodi  del  trattamento
penitenziario, basata sul titolo del reato giudicato,  in  chiave  di
esclusione dell'accesso agli strumenti risocializzanti, salve ipotesi
tipizzate correlate alla visibile  attenuazione  della  pericolosita'
(tramite  condotta  collaborativa).  Tale  particolare   assetto   e'
comprensibile  essenzialmente  in  chiave  storica,  posto   che   la
inversione di tendenza rispetto ai contenuti della legge  numero  663
del 1986, con parziale ripristino  -  decreto-legge  n.  152  del  13
maggio 1991, seguito dal decreto-legge 8 giugno 1992, n.  306  -  del
sistema di preclusioni parziali all'accesso alle  misure  alternative
alla   detenzione   con   sottostante   presunzione   di   accentuata
pericolosita' (il che equivale ad affermare ex  lege  un  consistente
pericolo di reiterazione di condotte analoghe a  quelle  giudicate  o
comunque altamente lesive di beni giuridici di particolare rango)  e'
correlata alla pervasivita' di fenomeni criminali di stampo mafioso o
terroristico o comunque a reati espressivi di visibile contiguita'  a
tali realta'  criminali  (la  versione  iniziale  della  disposizione
individua  esclusivamente  le  fattispecie  associative   di   stampo
mafioso, i reati aggravati dalla  finalita'  o  dal  metodo  mafioso,
quelli   commessi   per   finalita'   di   terrorismo   o   eversione
dell'ordinamento costituzionale, il sequestro di persona a  scopo  di
estorsione, l'associazione finalizzata al traffico  di  stupefacenti,
e,  su  un  livello  di  minore  intensita'  della  presunzione,   le
fattispecie di omicidio, rapina ed estorsione aggravata, la  cessione
di ingente quantita' di sostanza stupefacente). Cio' ha contribuito a
determinare una considerazione di non irragionevolezza di una  simile
tipologia di presunzione  legale,  espressa  in  piu'  occasioni  dal
giudice delle leggi con valutazioni di compatibilita' con i  principi
espressi dal testo dell'art. 27 della  Costituzione,  pur  con  delle
rilevanti precisazioni tese  ad  evidenziare  punti  di  perplessita'
circa  la  tecnica  legislativa  utilizzata,   tesa   a   determinare
automatismi limitativi di diritti in ragione del mero riferimento  al
titolo di reato. possono ritenersi fondate... In questo quadro appare
certamente rispondente alla esigenza di contrastare una  criminalita'
organizzata aggressiva  e  diffusa,  la  scelta  del  legislatore  di
privilegiare finalita' di prevenzione generale e di  sicurezza  della
collettivita',  attribuendo  determinati  vantaggi  ai  detenuti  che
collaborano con la giustizia. Non si puo' tuttavia non rilevare  come
la soluzione adottata, di inibire l'accesso alle  misure  alternative
alla detenzione ai condannati  per  determinati  gravi  reati,  abbia
comportato una rilevante  compressione  della  finalita'  rieducativa
della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare
consona ai principi di proporzione  e  di  individualizzazione  della
pena che caratterizzano il trattamento penitenziario,  mentre  appare
preoccupante la tendenza alla configurazione normativa  di  «tipi  di
autore», per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe
non essere perseguita...  L'esame  della  ragionevolezza  complessiva
della disposizione introduttiva del sistema delle presunzioni  legali
(che e' qui  l'aspetto  di  interesse,  non  essendo  in  alcun  modo
esaminabile il parametro della  intervenuta  collaborazione  meno  in
sede di divieto di sospensione  della  esecuzione  ex  art.  656  del
codice di procedura penale) ha sinora  valorizzato  -  in  un  quadro
ritenuto compatibile con i principi di cui agli articoli 3 e 27 della
Costituzione - il  concreto  legame  funzionale  tra  le  particolari
caratteristiche della condotta tipica della  fattispecie  considerata
ostativa -  ritenuta  espressiva  di  un  humus  relazionale  teso  a
permanere in epoca posteriore alla commissione del singolo fatto -  e
la  scelta  di  limitare   (fino   al   punto   di   escluderla)   la
discrezionalita' del  giudice  sulla  meritevolezza  del  singolo  ad
accedere agli strumenti di rieducazione alternativi. Sta di fatto che
la disposizione in esame ha subito - nel corso degli anni -  numerose
novellazioni  con  costante  accrescimento  del  catalogo  di   reati
ritenuti fondanti - peraltro con diversificati modelli operativi, dal
cui esame puo' prescindersi - la presunzione legale di  pericolosita'
sociale. Senza pretesa di esaustivita' va detto che si  e'  proceduto
ad  inserire  progressivamente  nella  complessa  architettura  della
disposizione i reati  associativi  finalizzati  alla  commissione  di
delitti contro la liberta' individuale e alla commissione di reati di
violenza sessuale (decreto-legge n. 341  del  2000)  le  associazioni
finalizzate al contrabbando (legge n. 92 del 2001);  le  associazioni
finalizzate alla immigrazione clandestina (legge n. 189 del 2002); le
ipotesi di tratta, riduzione in schiavitu' acquisto o alienazione  di
schiavi  (legge  n.  279  del  2002);   le   ulteriori   ipotesi   di
prostituzione minorile, pornografia minorile ed altri reati  sessuali
(legge n. 38 del 2006); lo scambio elettorale  politico  mafioso;  il
favoreggiamento della immigrazione clandestina in quanto tale  (legge
n. 43 del 2015) sino all'attuale novellazione realizzata con legge n.
3 del 2019 tesa a ricomprendere, le ipotesi di cui agli articoli 314,
317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater primo  comma,  320,  321,
322, 322-bis  del  codice  penale.  Cio'  ha  determinato  -  secondo
autorevoli  opinioni  espresse  in  dottrina  -  la  difficolta'   di
rintracciare nella sequenza accrescitiva un chiaro criterio selettivo
capace di esprimere la ragionevolezza intrinseca della  disposizione,
aspetto di cui vi e'  traccia  nella  stessa  espressione  utilizzata
dalla  Corte  costituzionale  nella  decisione   n.   32   del   2016
(intervenuta in tema di liberazione anticipata speciale) ove l'elenco
dei reati da cui deriva la presunzione legale di pericolosita' di cui
all'art. 4-bis si definisce «complesso, eterogeneo  e  stratificato».
La disposizione in esame si e' di certo  allontanata  dall'originario
modello di tutela della collettivita' dalla drammatica  aggressivita'
del   fenomeno   mafioso,   tendendo   ad   assumere   funzioni    di
norma-contenitore di fattispecie che di volta in volta  si  ritengono
espressive di un consistente livello  di  pericolosita'  dell'autore,
con prevalenza di finalita' di  prevenzione  generale  rispetto  alle
esigenze, di individualizzazione del trattamento. Cio', ad avviso del
Collegio, non puo' comportare - di  per  se'  solo  -  un  dubbio  di
ragionevolezza, trattandosi piuttosto di interrogarsi sui criteri  di
volta in volta adottati dal legislatore per  selezionare  le  singole
fattispecie e sul rispetto di canoni di logicita' e di base  empirica
della singola scelta, fermo restando  che  va  segnalato  come  nella
scorsa legislatura siano stati approvati dal Parlamento piu' punti di
lege delega - la legge n. 103 del 23  giugno  2017  -  tendenti  alla
riconsiderazione   complessiva   delle    preclusioni    legali    di
pericolosita' in sede di accesso alle misure alternative,  con  forte
riduzione del margine operativo delle presunzioni e ri-affidamento al
giudice del compito di valutare la sussistenza  delle  condizioni  di
utile ammissione (al comma 85: lettera b) revisione delle modalita' e
dei  presupposti  di  accesso  alle  misure  alternative,   sia   con
riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento  ai  limiti
di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che  per
i casi di eccezionale gravita' e pericolosita' e in  particolare  per
le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;
e) eliminazione di  automatismi  e  di  preclusioni  che  impediscono
ovvero  ritardano,  sia  per  i  recidivi  sia  per  gli  autori   di
determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento
rieducativo  e  la  differenziazione  dei  percorsi  penitenziari  in
relazione alla tipologia dei reati commessi  e  alle  caratteristiche
personali del  condannato,  nonche'  revisione  della  disciplina  di
preclusione dei benefici penitenziari  per  i  condannati  alla  pena
dell'ergastolo, salvo che  per  i  casi  di  eccezionale  gravita'  e
pericolosita' specificatamente individuati e comunque per le condanne
per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale). Il mancato
esercizio, su tali aspetti, della delega, non ridimensiona - ai  fini
qui in rilievo - la valenza obiettiva di  una  ampia  convergenza  di
opinioni circa la necessaria riconsiderazione  organica  del  sistema
delle presunzioni tradottasi in legge nel 2017. Cio' che rileva,  per
quanto sinora  detto,  al  fine  della  proposizione  del  dubbio  di
legittimita' costituzionale e' la considerazione  della  esistenza  o
meno di una congrua  base  logico-empirica  capace  di  sostenere  la
avvenuta qualificazione del delitto di peculato (ogetto del  caso  in
esame) come fondante la descritta presunzione  legale  di  accentuata
pericolosita'.  Infatti  per  costante  giurisprudenza  della   Corte
costituzionale - ripresa e ribadita di recente nella sentenza n.  141
del 2019  (in  specie,  si  veda  il  paragrafo  7.1  Cons.  dir.)  -
l'individuazione dei fatti punibili,  cosi'  come  la  determinazione
della pena per ciascuno di essi, costituisce  materia  affidata  alla
discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti  in  ordine  alla
«meritevolezza» e al «bisogno di pena»  -  dunque,  sull'opportunita'
del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa  -
sono per loro natura, tipicamente politici (v. sent. n. 95 del 2019 e
n. 394 del 2006). Le scelte  legislative  in  materia  sono  pertanto
censurabili, in sede di sindacato legittimita'  costituzionale,  solo
ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio». 
    Tanto premesso, la Corte ritiene che la scelta  di  ricomprendere
tra i reati ostativi quelli contro la PA, e in particolare l'art. 319
del codice penale, non sia sorretta da alcuno dei connotati idonei  a
sostenere una accentuata e generalizzata  considerazione  di  elevata
pericolosita' del suo autore, trattandosi di  condotta  difficilmente
inquadrabile in contesti di criminalita' organizzata o  evocativi  di
condizionamenti omertosi. 
    La presunzione legale di elevata pericolosita' di  «ogni»  autore
di simile condotta,  che  puo'  anche  essere  isolata  e  episodica,
espressa dalla legge n. 3 del 2019 pare  dunque  contrastare  con  la
mera osservazione delle caratteristiche obiettive  del  tipo  legale,
chiave di dubbio circa il rispetto del principio di ragionevolezza di
cui all'art. 3 della Costituzione. 
    L'apprezzamento  concreto  delle  caratteristiche  obiettive  del
fatto e della personalita' dell'autore viene peraltro sottratto  alla
discrezionalita' del Tribunale  di  sorveglianza  (con  anticipazione
degli effetti pregiudizievoli in tema di liberta' personale derivante
dalla previsione di legge di cui all'art. 656, comma 9 del codice  di
procedura penale) finendo con il determinare il concreto  pregiudizio
al principio  di  individualizzazione  della  pena  e  del  finalismo
rieducativo di cui  all'art.  27,  comma  3  della  Costituzione.  La
selezione delle fattispecie di reato «ostative» comporta l'attrazione
dei condannati per tali fatti - al di la' delle condizioni soggettive
e  dei  profili   di   quantificazione   concreta   del   trattamento
sanzionatorio - in un  sottosistema  che  nel  rendere  marginale  la
discrezionalita' del giudice incide  concretamente  sulla  dimensione
rieducativa della pena, esaltandone - per  converso  -  l'aspetto  di
prevenzione generale a fini di deterrenza. Simile assetto -  ove  non
assistito da fondata base empirica della  selezione  -  si  ricollega
esclusivamente ad un automatismo. Sul tema va dunque evidenziato  che
nel percorso di ragionata diffidenza del giudice  delle  leggi  verso
l'utilizzo di presunzioni legali  di  pericolosita',  correlate  alla
commissione di  uno  specifico  fatto  di  reato,  si  inserisce,  di
recente, il contenuto della decisione della Corte  costituzionale  n.
149  del  2018  (intervenuta  sulla  particolare  previsione  di  cui
all'art. 58-quater, comma 4, ord. pen.) nel cui ambito si e' ribadito
che la finalita' rieducativa della pena e' «ineliminabile»  ed  esige
«valutazioni   individualizzate»,   rese   impossibili   da    rigidi
automatismi legali  da  ritenersi  contrastanti  con  i  principi  di
proporzionalita' ed individualizzazione della pena. 
    Per tutte le ragioni sinora  espresse  va  sollevata  l'ulteriore
questione  di  legittimita'  costituzionale,  con  riferimento   agli
articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 1, comma 6,  lettera  B
della legge n. 3 del 9 gennaio 2019, nella  parte  in  cui  inserisce
all'art. 4-bis, comma 1, della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  il
riferimento al delitto di cui  all'art.  318  del  codice  penale  Va
sospeso il procedimento, ai sensi dell'art. 23 legge n. 87 del  1953,
e non puo' disporsi,  contrariamente  alle  richieste  difensive,  la
sospensione dell'ordine di esecuzione in quanto  non  prevista  dalla
norma in quanto si risolverebbe in  concreto  con  una  inammissibile
anticipazione del vaglio di costituzionalita' di norme vigenti.